(Da "L’araldica del cielo" di Franco Pagliano - Ed. Rizzoli 1978)

Il distintivo del 150° Gruppo Caccia è di quelli che non possono essere compresi se non se ne conosce la storia. E la storia è questa:
"Gigi tre osei" era un ufficiale di complemento. Era precisamente il sottotenente pilota Luigi Caneppele, un aliantistica olimpionico che, dopo essersi laureato in ingegneria aeronautica, aveva deciso che l’allora Regia Aeronautica Militare poteva offrirgli qualcosa di più e di ben diverso dal comodo impiego di Ufficiale tecnico a cui il titolo di studio gli avrebbe dato diritto. Aveva dunque conseguito il brevetto di pilota militare ed era capitato al 150° Gruppo quando questi si trovava a Caselle Torinese.

S'era presentato al reparto portando sulla tuta il distintivo di aliantista in posseesso del brevetto C. Tre aquile stilizzate, ma stilizzate al punto che avevano dovuto chiedergli che cosa diavolo fossero.
"Tre osei" aveva risposto Caneppele nel suo bel dialetto. E da quel giorno era diventato per tutti "Gigi tre osei".

Quando a un reparto un nomignolo sostituisce il cognome, vuol dire che il più è fatto. Gigi era trentino, era biondo, era alto, era sempre pronto al volo, al canto e all’amore come le creature felici. Gigi era tanto in gamba che, qualche tempo dopo, dovettero trasferirlo ad un Gruppo di nuova formazione perchè addestrasse i giovani piloti.

Col nuovo Gruppo partì per la guerra, combattè in Tunisia, prese la prima medaglia, poi fu trasferito in Africa col 2° Stormo, continuò a combattere e tornò infine a Caselle per un periodo di riposo.

Ma durante il riposo si lasciò un giorno prendere la mano dal cavallo rosso dell’entusiasmo e, salito su un biplano, si mise a fare a gara con le rondini. Le rondini, lo sapete, volano basse e si posano sui fili; Gigi cercò di posarsi sui fili a sua volta, ma era più pesante delle rondini e ne venne fuori una scassata, un rapporto incidente di volo, una busta gialla di arresti e un trasferimento ad un reparto di idrovolanti in cui bisogna volare piatti per forza.

In questi casi non si transige. Chi giudica e punisce, dimentica che ai suoi tempi ha fatto anche lui le puntate, o ricorda di averle fatte e di essere andato a finire dentro. Pensa che quelli erano bei tempi, si lascia per un momento prendere dalla nostalgia, poi si scuote, ridiventa burbero e prende "i provvedimenti del caso". Sotto sotto però sorride al pensiero che, se quell’altro non è un pollo, alla caccia ci tornerà lo stesso.

E Gigi ci tornò. Ci tornò qualche tempo dopo nella maniera meno ortodossa e più impensata, ma ci tornò.

Il suo vecchio Gruppo, il 150°, si trasferiva in Africa. Su uno dei campi tappa il comandante era sceso dall’apparecchio, era andato a far pipì, aveva dato disposizioni per il rifornimento e stava attendendo l’ordine di partenza, quando si vide arrivare davanti Gigi. Un Gigi irriconoscibile, demoralizzato e abbattuto che si dava pugni in testa e diceva che lì sarebbe morto d’inedia. "Comandante, mi porti con lei in Africa". "In Africa? Ma che sei matto?". "Comandante, sono matto. Mi porti con lei in Africa; rinsavirò". "Ma come vuoi che faccia?". "Faccia come vuole, comandante, ma non mi lasci qui". "No senti: adesso tu rimani qui. Vuol dire che ti richiederò e raggiungerai il Gruppo laggiù". "Comandante non chieda niente, mi porti via subito". "Subito? E’ una parola!". "Si comandante; è una parola, una sola, bellissima. Subito! Sente come è bella?". "Eh, lo sento! Ma poi chi li sente i signori superiori?". "Comandante, li sentiremo insieme, li sentiremo con tutto il Gruppo schierato, li sentiremo come vorrà lei, ma adesso mi porti in Africa!".

E così per ore intere, al circolo, a mensa, in cameretta, sul prato, al comando, dovunque il comandante andasse, l’altro gli stava dietro e continuava quella lagna.

A volte, lo sapete, ci si mette di mezzo il diavolo. Mentre il Gruppo è lì in attesa di spiccare l’ultimo balzo, si ammala uno degli ufficiali, il comandante lotta con se stesso, riflette, scuote la testa, vede che l’ufficiale non guarisce, ci ripensa, poi di colpo decide e dice a Gigi di tenersi pronto a partire. Gigi si schiaffa sull’attenti di fronte al comandante, lo abbraccia con gli occhi, lo bacia con il pensiero, schizza in cameretta, fa fagotto e l’indomani all’alba parte per l’Africa.

La bomba scoppia qualche mese dopo, mentre il 150° è in piena attività di guerra. Gigi, che porta sempre il suo vecchio distintivo di aliantista, è il più audace, il più instancabile, il più valoroso pilota del reparto. I "tre osei" sono sempre in volo con lui e attaccano, mitrgliano, giostrano, s’impennano, picchiano, battono ormai qualsiasi tipo di rondine che sorvoli la gialla crosta del deserto.

Quando scoppia la bomba, Gigi è preoccupato per il comandante. Va a finire che se fanno tanto di impuntarsi, lo trasferiscono un’altra volta. In ogni modo non può far altro che continuare a fare la guerra, scrivere una dichiarazione giustificativa, attaccarsi a tutte le maniglie possibili. La guerra continua, il suo gruppo fa miracoli, ottiene una citazione sul bollettino e finalmente la burrasca si placa. Gigi rimarrà con loro.

Rimarrà con loro continuando a combattere con quell’entusiasmo che non può essere descritto a parole, perchè con certe cose non ci si può misurare a parole. Rimarrà con loro fino a quando, durante un volo di trasferimento su un campo avanzato, volo per il quale si era offerto volontario perchè era indispensabile trasportarvi subito gli specialisti del gruppo, cadrà nel tentativo di portare a termine a qualunque costo la missione che gli era stata affidata. Buona parte degli specialisti si salva grazie al suo sacrificio.

Dopo la sua scomparsa, il sottotenente Di Robilant, che era l’ufficiale sul cui apparecchio Gigi si era trasferito in Africa e sul quale aveva combattuto, volle ricordarlo facendo disegnare sull’apparecchio stesso i famosi "tre osei". Subito dopo, con l’aggiunta di un nome, di una palma e di qualche duna, nacque spontaneo e bellissimo il distintivo del 150° Gruppo, i cui piloti hanno voluto fare in modo che "Gigi tre osei" rimanesse sempre con loro, anche dopo l’ultimo, definitivo trasferimento.


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